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La delocalizzazione delle aziende? che intervengano le istituzioni nel territorio



Leggo sulla stampa locale, con favore e piacere, la decisione del proprietario dell’Azienda Ergon Line di Viadana nel cedere le sorti dell’Azienda medesima ai suoi dipendenti e collaboratori. Notizia che ha dell’inverosimile dato i tempi di crisi in cui viviamo. 




E’ innegabile che le delocalizzazioni rappresentano un danno per il Paese che le subisce ed un beneficio per quello che accoglie l’investimento. Le ragioni del fenomeno spesso incidono sul costo del lavoro, sul livello di tassazione e sugli incentivi pubblici a disposizione. Ma contano anche l’efficienza del sistema Paese, elementi di logistica e di organizzazione aziendale.

In Germania la politica sociale concertativa ha una lunga storia: importanti esempi di coinvolgimento di lavoratori nella gestione delle aziende (co-gestione). In Italia una simile tradizione sulla co-gestione non esiste. Serve aprire tavoli di confronto su tutte le tematiche economico-sociali calde. Le aziende che delocalizzano hanno prioritariamente l’obiettivo di ridurre i costi e/o di aumentare la produttività (due facce della stessa medaglia).

Certamente andrebbero studiate forme di intervento sull’efficienza produttiva alternative alla misura radicale. Si eviterebbero tutta una serie di problematiche collegate allo spostamento in massa di intere produzioni in paesi stranieri. Ma quali potrebbero essere queste misure alternative? Facendo un esercizio di “gestione creativa”, si potrebbero schiudere molteplici scenari.

Ad esempio potrebbe esserci, magari per un periodo di tempo limitato, una riduzione di salari e stipendi per operai, impiegati e dirigenti; oppure ancora si potrebbe tentare, per trasformare dei costi fissi in variabili, di fare uno spin-off di una parte della produzione, creando delle società ad hoc in comproprietà con i lavoratori interessati al processo di terziarizzazione; o ancora, con il contributo e d’intesa con i lavoratori, un piano di differenziazione della produzione che consenta a produrre nuovi modelli a maggior valore aggiunto da essere quindi collocati sul mercato ad un prezzo superiore. 

Sono solo alcune ipotesi, che non hanno nessuna pretesa di esaustività; quel che è certo è che è necessario partire con l’obiettivo comune da parte di aziende e sindacati, di mantenere i posti di lavoro, evitando i traumi susseguenti alla delocalizzazione, traumi che non possono non ripercuotersi anche sull’economia locale. Per questo motivo attuare una politica concertativa può essere rappresentata dalle amministrazioni locali che hanno certamente un forte interesse a che un’attività economica rimanga saldamente installata nel territorio.

E il contributo che possono dare le amministrazioni locali NON E’ MARGINALE !! Basti pensare alla possibilità di cedere aree o stabili in via gratuita per l’avvio di nuove attività, oppure alla possibilità di contribuire alla riconversione professionale di lavoratori che debbano cambiare mansione tramite corsi di aggiornamento, oppure ancora ai contatti attivabili con realtà produttive del territorio per assorbire eventuali esuberi di manodopera e così via.

Purtroppo, la politica molto spesso fatica a comprendere la logica sottesa all’attività d’impresa. La libertà di apertura di un’iniziativa privata contempla anche la libertà di chiusura della stessa. Sarebbe forse meglio che il Ministero dello Sviluppo economico si dedicasse maggiormente alla missione insita nel nome stesso del dicastero, piuttosto che fare il curatore fallimentare delle imprese in crisi. Ecco il ruolo chiave di una politica all’avanguardia.

Rendere l’ecosistema più favorevole all’attività di impresa, piuttosto che arroccarsi di continuo su battaglie che non si possono vincere. Senza dimenticare gli effetti sui lavoratori che subiscono inermi le decisioni dall’alto, ovviamente. Meglio ragionare su come spendere con parsimonia le risorse pubbliche per evitare di elargire fondi a chi non ha interesse ad investire in Italia nel lungo periodo.


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